Intanto che le sentinelle spirituali ci pensano sopra - rigirandosi in bocca lo scaracchio di una contromarca da riscuotere alla casa padronale (sputandola in aria piuttosto che nel piatto da cui si mangia) ci dovremmo proprio chiedere dell’opera di quale tipo di arte, precisamente e in verità, qui si sta parlando. Perché non si tratta certo di un’opera dell’arte calzaturiera, quando si è prediletta, all’ordinaria vetrina di un qualunque negozio di scarpe, la sala prestigiosa di un museo nazionale.
- Le opere si trovano e sono esposte nelle collezioni e nelle esposizioni. Ma è questo il loro modo di essere le opere che sono, o qui non sono altro che oggetti della “industria” artistica? Le opere sono offerte al godimento artistico pubblico e privato. Uffici pubblici assumono il compito della loro conservazione. Intenditori e critici d’arte si occupano di esse. Il commercio delle opere ne cura il mercato. La storia dell’arte assume le opere a oggetto di scienza. Ma in tutto questo indaffaramento incontriamo veramente l’opera d’arte? [2]
E come avremmo potuto incontrare “veramente” l’opera d’arte quando nella ricerca della sua origine l’unica opera che è stata messa in gioco non era altro, secondo Derrida, che “un mero esempio”? “Nel momento preciso in cui Heidegger fa l’esempio del paio di scarpe da contadino, nessun quadro era ancora necessario. E nessun quadro era ancora stato evocato” – ci dice Derrida.[3]
I nostri occhi, che ancora non hanno incontrato un paio di scarpe reali, rischiano di non incontrare neppure un quadro reale che le raffiguri - e inizio a temere che, continuando a seguire passo passo la filosofia, non incontreranno mai alcunché di tangibile. Scrive Derrida:
- Perfino nel momento in cui il “quadro famoso” si mostra infine come un esempio d’esempio, il suo statuto ci lascia in una sostanziale incertezza. Potremmo pur sempre sostenere, per scommessa, che Heidegger non intende parlare del quadro, non lo descrive in quanto tale…non pretende dire nulla del quadro stesso… un quadro soltanto evocato ed in cui né lo sguardo, né il discorso sono ancora penetrati, che essi non hanno neppure affrontato o sfiorato con una descrizione. Non è ancora stato detto nulla che riguardi propriamente il contenuto del quadro e non appena viene nominato una seconda volta, ecco che di nuovo viene messo da parte con un discorso evasivo e digressivo. Osserviamolo bene: ogni paragrafo è come una nuova ondata che finge di sfiorare l’oggetto e che subito si ritrae.[4]
Osservata bene la descrizione del discorrere di Heidegger fatta da Derrida, potevamo forse incontrare mai qualcosa di reale in tutto questo indaffararsi della metafisica con delle scarpe-tanto-per-dire?
Essendo partito alla ricerca dell’opera d’arte con ai piedi simili scarpe - senza cioè mai prendere sul serio (e sul vero) né le scarpe né il “quadro famoso” che le rappresenta - dove poteva mai arrivare (o rimanere) il filosofo se non nella radura evanescente delle Idee?
Ma non si resiste a lungo appesi lassù, aggrappati ad una catena celeste.
Racconta Perelà, uomo di fumo:
- Sotto c’era ancora l’ultima cenere e attorno al camino tre poltrone vuote, un grosso libro a terra chiuso. Dove io avevo posato i piedi, accanto, un paio di bellissimi stivali lucidi. Io che mi sentiva così estraneo alla terra e attratto ancora alla sommità del camino, infilai inconsciamente le mie gambe in quegli stivali, e allora mi sentii sicuro, dritto, piantato, lasciai la catena e incominciai a camminare.[5]
Con delle concrete calzature anche l’inconsistente può andarsene in cerca della Verità del vero. Ed a furia di andare magari la incontra pure.
Ma sarà forse quella verità promessa da Cézanne e da van Gogh? La verità in pittura? la verità della pittura?
Per niente.
Riconosciamo volentieri, con Derrida, che Heidegger procede con sempre nuove ondate che fingono di sfiorare il “famoso quadro” di van Gogh. Ma così lo sospinge sempre più lontano... E per avvicinarlo a cosa?
Insomma: che tipo di opera è questa opera di cui realmente si parla mentre si finge di parlare del "quadro famoso" di van Gogh?
Dopo tutto quest’affaccendarsi sul sentiero che doveva condurci al cospetto dell’opera d’arte, d’improvviso incontriamo la Verità che non finge più di parlar d’altro; ossia incontriamo la Storia e un popolo storico con la sua Terra, incontriamo l’instaurazione come dono, come fondazione e iniziazione che “si fa reale solo nel salvaguardare”.[6]
Ecco, difatti, cosa realmente ci appare nel paragrafo “Verità e arte”, significativo fin dal titolo:
- L'essenza dell'arte è la Poesia. Ma l'essenza della Poesia è la instaurazione [Stiftung] della verità. Instaurare qui è inteso in un triplice significato: come donare, come fondare, come iniziare... La fondazione è un traboccamento, una donazione... Il progetto veramente poetico è l'apertura di ciò in cui l'Esserci è di già gettato in quanto storico. E', cioè, la Terra e, per un popolo storico, la sua Terra, il fondamento autochiudentesi su cui esso riposa, assieme a tutto ciò che, pur essendogli ancora nascosto, esso già è.[7]
Posso anche arrivare a capire che i termini di storia, di popolo e simili profanità, siano stati utili per esprimere l’idea che l’opera d’arte trae ogni propria sua concreta specificità dalle condizioni materiali come dalle circostanze storiche nelle quali è stata realizzata.
Ma con ciò si attribuirebbe al filosofo niente altro che una banalità.
Allora, che ci fanno qui queste figure famose del Potere reale? [8]
O bisogna proprio intendere che l’origine dell’opera d’arte (poesia o quadro) va cercata nel traboccamento di un popolo storico in possesso della sua propria Terra?
Non siamo fuori pista e troppo lontani dal vero covile della volpe [9] se poi leggiamo che:
- [La verità] è storica in molteplici modi. Un modo essenziale in cui la verità si istituisce nell'ente da essa stessa aperto, è il porsi in opera della verità. Un altro modo in cui la verità è-presente è l'azione che fonda uno Stato. Un altro modo in cui la verità giunge alla luce è la vicinanza di ciò che non è semplicemente un ente, ma il più essente degli enti. Un altro modo ancora in cui la verità diviene è l’interrogazione del pensiero che, come pensiero dell’essere, lo nomina nella sua dignità di problema.[10]
Inaspettatamente o d’improvviso la figura (famosa) dello Stato ha fatto capolino e alza il dito per essere chiamata in cattedra a dire la sua circa l’Arte e l’origine dell’arte.[11]
Non siete anche voi del parere che qui lo Stato sia un’idea troppo angusta (e balorda) per trovarsela d’improvviso, in un capitolo dedicato alla Verità e all’Arte, a far da battistrada alle verità che seguono? Chi sarebbe “il più essente degli enti”, forse Dio? Chi interroga e nominando l’essere gli conferisce la livrea di problema? forse la Filosofia - che non trascura occasione per garantirsi un posticino accanto ai suoi padri eterni: la divinità e lo Stato, avvertendoli che la loro Verità “si fa reale solo nel salvaguardare”...
D'altronde dopo il miracolo dell’incarnazione della Verità nell’Ente (di Stato) cosa c’è da fare per i salvaguardanti/non-facenti se non gli Ispettori generali, riformatori degli uomini, delle cose, delle istituzioni e del costume; con poteri esecutivi, materiali, spirituali... et ultra? [12]
Dopotutto mi chiedo se dovremmo tornare di nuovo lì, ancora una volta alla critica dell’Ideologia Tedesca…
A me sembra proprio che quelle che io stesso avevo temuto fossero delle forzature gratuite intese a proiettare sulla “società reale” la descrizione dello specifico “mondo dell’arte” fatta da Heidegger, non erano poi delle deboli e troppo fantasiose illazioni dettate da un mio malevolo pregiudizio “ideologico” nei confronti del suo pensare… “ad un progetto veramente poetico” per un popolo diviso tra facenti e salvaguardanti, organizzato nella forma dello Stato nazionale con tutte le sue Agenzie di conservazione e cura… Lo Stato ringrazia e, per la gentilezza ricevuta, offre un posto alla sua destra ai “salvaguardanti”, verecondenti o inveranti che dir si vogliano; poiché si è stato opportunamente deliberato che “Come è impossibile che un’opera ci sia senza essere stata fatta… così, quale fattura, essa non può sussistere senza chi la salvaguardi”.[13]
Con ciò, il cerchio della Verità e dell’Arte si chiuderebbe (soprattutto per la Filosofia), lasciando comunque fuori dalla porta - e dalla sua portata -, un paio di vecchie scarpe.
“Portieri si nasce!” – commenterebbe il Totò della Banda degli Onesti.
Ecco.
Si può anche dissentire dalla piega che ha preso tutta la faccenda; ma è stata l’obiezione stessa di Derrida che, addebitando a Meyer Schapiro l’errore di aver attribuito ad Heidegger “l’intenzione di descrivere e di fare riferimento solo a delle scarpe dipinte, solo a determinate paia di scarpe dipinte”[14], ha inaugurato la deriva interpretativa che doveva portarci da qualche parte…
Attenendosi alla letteralità del testo dunque l’americano l’avrebbe fatta troppo semplice, mentre qui Heidegger non aveva affatto l’intenzione di far riferimento solo e soltanto a delle scarpe dipinte – ha tenuto a precisare il professore francese, che poi preferisce però soffermarsi sulla cornice del quadro discorsivo del filosofo tedesco, senza dar seguito all’altresì o all’oltre-ciò di queste traboccanti sue scarpe da contadino.
Da parte mia ammetto che in questo capitolo dell’Origine molte cose hanno fatto del loro meglio per convincermi che nella Germania del 1935 le scarpe di van Gogh sono state calzate appunto solo e solamente per arrivare a dire, senza darlo troppo a vedere, che “un altro modo in cui la verità è-presente è l’azione che fonda uno Stato”.
E dal momento che “l’essenza dell’arte è il porsi in opera della verità”[15], la fondazione di uno Stato (in quanto pone in opera un Ente in cui la verità è-presente) deve accogliersi e ritenersi un’opera d’arte d’arte… essenziale…
E chi sarebbe l’autore di questo traboccante capolavoro?
Non mi direte mica: questo pittore austriaco!
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[1] - Kasimir Malevic, Dal cubismo e dal futurismo al suprematismo. Il nuovo realismo pittorico (1916), in Suprematismo, a cura di G. Di Milia, Abscondita, Milano 2000, p.40.
[2] - Heidegger, Origine Ni68, p. 25-26.
[3] - Cfr. Derrida, Restituzioni, cit. p. 302.
[4] - Derrida, Restituzioni, cit. p. 302-303. - Dopo questo attento argomentare e ampia disamina, come si può dire che “questa composizione è stata studiata fra l’altro in modo particolare da Martin Heidegger in Der Ursprung des Kunstwerkes”? (Bonicatti, cit., 1977, p. 53). Anche Jameson accetta senza batter ciglio l’origine contadina delle scarpe, riconoscendo inoltre che di questo dipinto Heidegger ne ha fatto un’analisi fondamentale - salvo poi, da parte sua, mostrarci tutt’altra opera: la F 333 (F. Jameson, Postmodernismo, 1991; ed. Fazi, Roma 2007, p. 24 e 25). Deve trattarsi certamente di una opinione diffusa e tenace, se la ritroviamo espressa dal più recente traduttore e curatore italiano degli Holzwege, che presenta l’Origine come un testo celeberrimo per “la sua memorabile analisi del quadro delle scarpe contadine di van Gogh” (V. Cicero, Origine Bo06, p.a XV). E leggo tuttora che alla fortuna di quest’opera di van Gogh “è associato il saggio di Heidegger intitolato L’origine dell’opera d’arte, dedicato a un loro intenso commento ed evocato (il testo di H.) da Lacan stesso proprio per aver evidenziato la loro ‘incommen-surabile qualità di bello’” (Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent van Gogh, Bollati Boringhieri editore, Torino, aprile 2009, p. 98-99). Devo proprio credere che i “salvaguardanti/ verecondenti/inveranti” partecipano, custodiscono e salva-guardano proprio tutto, anche le chiacchiere senza fondamento e il comune sentito dire?
[5] - Aldo Palazzeschi, Il codice di Perelà, Edizioni futuriste di Poesia, Milano 1911.
[6] - Heidegger, Origine Ni68, p. 59 e 58. Ivi, a p. 51 si legge: “Il fatto che l’opera non trovi i suoi salvaguardanti, o non li trovi immediatamente conformi alla verità che si storicizza nell’opera, non significa affatto che l’opera resti opera anche senza i salvaguardanti […] La stessa dimenticanza in cui l’opera può cadere non è un nulla; essa è ancora una salvaguardia.” Ciò comporta che si darebbe anche il caso bizzarro dell’esistenza di salvaguardanti privi dell’oggetto stesso da salvaguardare. Oltre la servitù per vocazione (cfr. nota 6, infra p. 47) abbiamo così scoperta anche una guardianità per vocazione (che farebbe la felicità del Totò della Banda degli onesti).
[7] - Heidegger, Origine Ni68, p. 58 e 59.
[8] - K. Marx, Tesi su Feuerbach, in Ludwig Feuerbach di F. Engels, cit. p. 82: “La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare una verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica”. - Avendo ritrovato in un vecchio quaderno di Marx le 11 tesi su Feuerbach, Engels le ripropose in appendice alla riedizione del 1888 del suo testo su Feuerbach, che era stato pubblicato nei fascicoli 4 e 5 della Neue Zeit del 1886.
[9] - Di cui andavamo a caccia – ricordate? Cfr. HDS [Origine della valigia]
[10] - Heidegger, Origine Ni68, p.46. Siamo sempre nel capitolo “Verità e Arte”, che precede quello della Conclusione.
[11] - Siamo sempre nel capitolo “Verità e Arte”, che precede quello della Conclusione.
[12] - Palazzeschi, Il codice di Perelà, cit.
[13] - Heidegger, Origine Ni68, p. 51. - Ma così è rovesciata l'enunciazione per cui "è l'opera stessa a rendere possibili coloro che la fanno"; qui si direbbe cioé che "sono coloro che la fanno stessi a rendere possibile l'opera". Delle due l'una.
[14] - Derrida, Restituzioni, cit. p. 303.
[15] - Heidegger, Origine Ni68, p. 56.
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